Gilgameš e la sua Epopea: il poema antico quanto la Nostra Storia
Fonte di ispirazione per la maggior parte dei cicli epici che avrebbero preso forma durante i secoli successivi nel Bacino del Mediterraneo e non solo, l’Epopea di Gilgameš, composta intorno al III millennio a.C., costituisce forse il più importante testo mitologico assiro-babilonese di cui abbiamo memoria, oltre a rappresentare di fatto il punto d’origine dell’intera Letteratura Occidentale.
Le principali versioni dell’Opera, a tutt’oggi ancora incompleta, si presentano, incise in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, sia in lingua sumerica, che accadica, e la loro scoperta, avvenuta nel 1853, si deve all’archeologo iracheno, poi naturalizzato britannico, Hormuzd Rassam, mentre una nota traduzione inglese (1870) fu opera di George Smith, assirologo presso il British Museum. Il fulcro del racconto sono appunto le avventure di Gilgameš, leggendario re di Uruk, una delle principali città della Mesopotamia, e, sebbene secondo alcuni studiosi la sua figura sarebbe storicamente esistita, le imprese di cui il sovrano si rende autore lo vedono fronteggiare nemici mostruosi, nonché la Morte, estrema sfida che attende ogni uomo.
Eroe che campeggia fra cielo e terra, in parte divino, in parte umano, accompagnato da Enkidu, uomo ferale e incivile che abbandona il suo stato belluino per seguire, fino alla fine dei suoi giorni, colui che ha riconosciuto come Re e Amico, Gilgameš viene posto innanzi a tematiche che ancora oggi sono a noi familiari, quali la paura nei confronti dell’Ignoto, di ciò che si estende al di là delle mura delle nostre case e città: mostri, demoni e mondi antidiluviani ormai dimenticati dai molti, mondi che le sue gesta consegneranno alla Storia, poiché la sua mano li inciderà sulla pietra.
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Molte delle storie narrate all’interno dell’Epopea riecheggiano, sotto diversa forma, persino nella Bibbia, tanto che non è difficile scorgere fra i versi similitudini con alcuni passi della Genesi, fra cui il Diluvio Universale o il Giardino dell’Eden, che assume il ruolo di dimora di Ut-Napishtim, il Noè babilonese.
Chi è l’uomo che può scalare il cielo? Soltanto gli dèi vivono per sempre con Šamaš glorioso; invece noi uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento”, Gilgamesh (traduzione di N. K. Sandars).
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Il testo spiega a chi lo ascolta che Umanità significa appartenere a una Società, ma significa anche Crescere, mutando costantemente da uno stato animale a uno divino.
Significa prestare estrema importanza alla Tradizione Culturale, fenotipo esteso della Civiltà.
Spiega come l’Uomo, comprendendo la sua natura di essere mortale e avendo paura dell’Oblio, dia un vero significato alla propria esistenza altrimenti effimera, tanto da proiettare in tal modo sé stesso verso il superamento del suo stato miserabile.
L’Epopea di Gilgameš è l’opera verso cui tutta la letteratura successiva è debitrice e riesce, vecchia di millenni, a essere più attuale di molti odierni “capolavori”.